di Marcel Lo Zingaro
L’orcolat (il brutto orco, ovvero il terremoto) fece la sua comparsa in Friuli il 6 maggio 1976 e, in mezzo alle macerie di un cjast di Buja (solaio/granaio) spuntò fuori un libretto di preghiere, nel quale, in ultima pagina vi era annotato come forma di diario, la cronaca di un ordinaria giornata in Siberia.
Siamo a Missaavaja (Mysovsk) poi diventata Babuskin in onore del rivoluzionario russo Vasi’evic Babuskin fucilato nel 1906. L’autore era un certo Luigi Giordani e scriveva; “1 gennaio 1900 io e altri 13 friulani sfidando un freddo intenso“… Comincia così la ricerca di Romano Rodaro, il francese più friulano che esiste, e dalla cui ricerca il regista francese Cristian Romato anni dopo trasse il film “I dimenticati della transiberiana“. La transiberiana, coi suoi 9288,200 km, nella linea principale è la ferrovia più lunga al mondo; (la Mosca – Vladivostok) si dipana nella linea transmongolica che da Mosca va a Pechino passando da Ulanbaatar capitale della Mongolia e, nella linea transmanciuriana che invece a Pechino ci arriva da Chita.
La costruzione della transiberiana inizio’ durante il governo zarista di Nicola II (1868-1918) ufficializzato il 17-3-1891. Una prima parte dell’esposizione universale del tracciato venne mostrata all’esposizione universale di Parigi del 1900, mentre il tratto della curva di Baikal, ovvero i contorni meridionali del lago Baikal, venne inaugurata nel 1905. Per terminare infine nel 1916 con l’inaugurazione del ponte sul fiume Amur.
Alla costruzione della transiberiana parteciparono circa 90.000 operai, per la maggior parte carcerati e prigionieri, dei quali ne morirono circa 30.000.
La maggior parte delle morti avvenivano nei fiumi in quanto i prigionieri non avevano competenza per eseguire i lavori (alcuni fiumi siberiani sono larghi 2 km), e fu così che la direzione ministeriale delle ferrovie a Pietroburgo inviò degli operai specializzati provenienti dall’Italia.
Oltre 300 di essi provenivano dal Friuli, inoltre c’erano 82 abruzzesi della zona dell’Aquila portati dall’imprenditore di Rocca di Mezzo Domenico di Paola appena 26enne che ebbe l’appalto per un tratto, i rimanenti erano bergamaschi e trentini, la maggior parte di loro erano scalpellini specializzati nella lavorazione della pietra, come riportato anche dalla ricercatrice e scrittrice di Irkutsk Elvira Kamenshchokova, la quale in tarda età, scopri’ che furono gli italiani a costruire la ferrovia dalle sue parti, e pertanto decise di fare una ricerca culminata con un viaggio in Friuli nel quale raccolse decine di testimonianze.
Erano scalpellini così bravi che Domenico Indri un giorno scolpì due pere in pietra verde, con la patina in cera che ingannarono perfino il capomastro che si ruppe un dente nel masticarle. Tali pere sono oggi esposei nel museo ferroviario di Cheijabinsk.
I primi friulani arrivarono a Omsk nel 1893 mentre la costruzione procedeva verso Tomsk. Erano Pietro Brovedani e un certo Clauzetto ai quali si aggiunge il triestino Taburno. Nel 1894 tramite Indri e Clauzetto ne vennero reclutati altri 34. Nel 1895 per la linea 8 verso Irkutsk altri 100.
Bonaventura Zannier di Pradis scolpì le sue iniziali sul viadotto. In inverno in quelle zone la temperatura media oscilla tra i -30 ed i -40 toccando punte massime di -60. La calce gelava, e per poter lavorare a temperature decenti c’era sempre accesa una enorme catasta di tronchi. In estate si costruivano i ponti e pilastri usando come base di lavoro dei cassoni ad compressa aria, mentre in inverno si sfruttava il metro di ghiaccio che si formava nei fiumi per montare le centine in legno e le volte in pietra.
I lavori procederono per circa 600 km di binari l’anno. La polvere di pietra creava problemi di silicosi, per cui nelle baracche i samovar erano accesi 24 ore su 24.
Giuan Del Fai beveva un bicchiere di wodka ad ogni tappa, mentre Francesco Concina scriveva alla moglie nel luglio 1894; “abbiamo passato dei posti che abbiamo avuto il gelo alla barba lungo 10 cm” e ancora; “abbiamo passato un lago lungo 15 km, mangiamo solo pan negro inghiacciato.. mai posseduto tanta sporcizia, cimici, pulci, pidocchi, non ci si lava mai” ...
La lontananza dalle famiglie era un dramma, poiché gli operai dovevano trattenersi dai 10 ai 15 anni, quindi in tanti organizzavano la riunificazione familiare attraverso un viaggio di circa 40 giorni. Le donne ed i bambini partivano dalla stazione di Gemona del Friuli per Vienna, Kiev, Mosca e infine Siberia.
Nel 1905 scoppiò la guerra russo giapponese, e su ordine del governo gli stranieri vendere dispersi, per poi essere richiamati a guerra finita.
A ferrovia ultimata gli operai si erano ormai stabiliti in Russia, ma nel 1918 la rivoluzione di ottobre scombinò i piani di molti. Giovanni Toneatti si suicidò non sopportando che la nazione che aveva contribuito a costruire cambiasse totalmente il suo volto. In tanti cambiarono nome, Giuseppe Minisini riuscì a fuggire col nome di Ivan Osipovic, altri vennero ingaggiati dall’ambasciata francese per gare di tiro alla fune – vista la loro forza fisica – in palio c’era il ritorno a casa.
La contessa Pierina Savorgnan di Brazza’ organizzò una fuga il 22/23 febbraio 1920 attraverso le due navi England Maru e Texas Maru che giunsero a Trieste il 12 aprile.
I rimanenti rimasero in Russia sotto falso nome. Alla morte di Lenin la polizia di Berja li rintracciò tutti e Stalin nel 1937 espulse mogli e figli rimandandoli in Italia. Qui gli adulti vennero arrestati e fucilati come traditori, tranne Domenico Francesco Antonelli, che morì in carcere.
La dignità di quegli uomini venne loro restituita da Nikita Kruscev alla morte di Stalin.