Di Pietro De Angelis
Un aspetto mi ha sempre sgomentato e angosciato di quanto accaduto in questi due anni: la facilità con cui l’istinto di sopravvivenza sociale abbia soppiantato l’istinto di sopravvivenza biologico.
Non ho mai creduto che il terrore della malattia sia stata la molla decisiva nello spingere milioni di persone a inocularsi ripetutamente un farmaco nuovo e ignoto.
Sono invece convinto che, fatta eccezione per una certa percentuale minoritaria, per moltissimi sia stato dominante il bisogno di conformarsi.
La necessità di non essere espulsi dal corpo sociale: emarginati, discriminati, umiliati, offesi, minacciati nel proprio status e nei propri privilegi.
La paura della morte sociale ha vinto sulla paura della morte biologica.
Non è un caso che in tutti i cosidetti “no vax”, incontrati sulla mia strada, abbia spesso ritrovato una caratteristica in comune: essere sempre stati, già da prima della pandemia, degli outsider, persone che si erano già poste volutamente ai margini del sistema o che vi viveano all’interno per necessità ma distaccandonese nell’intimo; persone profondamente spirituali, connesse a se stesse e alla natura, con un forte senso del sacro; persone capaci di vivere in solitudine, e in isolamento.
Al contrario, in molti dei più feroci sostenitori di questo regime, ho sempre riscontrato una sorta di fragilità e di immaturità; una necessità quasi infantile di essere eterodiretti, di affidarsi a una autorità esterna per riceverne guida e protezione; un’incapacità di pensare, sentire e vivere in autonomia.
E’ una mia impressione, magari non corrisponderà appieno a verità, ci saranno di certo eccezioni da una parte e dall’altra.
Ma un’esperienza, anche singola, ha comunque il valore di una testimonianza.